La ruspa entra nel gerbido. Poi avanza, dritta.
Un rumore di schianti, mentre una striscia di impenetrabile
intrico vegetale viene spellato via. Poi si ferma, gira su se
stessa e torna indietro. Un’altra striscia. E avanti così.
Poi la ruspa si spegne, di nuovo silenzio. Adesso sul dorso
della collina c’è un grande spazio vuoto, rettangolare.
Non c’è terra più nuda dell’argilla
del Monferrato, così chiara, appena giallina. In mezzo
un’unica quercia, risparmiata. Ora da qui si vede fuori.
Lontani i profili delle altre colline, le valli, i paesi, le
torri.
Dopo vent’anni ricordo bene l’emozione
di quel momento, forte ma aggrovigliata, un po’ orrore
per la violenza così evidente, un po’ incantamento
davanti a quel vuoto che era la “nostra” terra,
stesa davanti al rudere, nostra casa futura. Nettissimo il presagio
del giardino, necessario e doveroso. Quel che ancora non sapevo
è che stavo assistendo al vero atto di fondazione: della
casa degli alfieri, certo, casa del teatro, ma anche
del “mio” teatro futuro.
C’è voluto molto tempo, naturalmente.
Da lì in poi, negli anni, io, noi, incapaci cittadini,
abbiamo fatto buchi nella terra e zappato, piantato, seminato,
innaffiato, potato, sbagliato, ucciso, tagliato, disfatto, rifatto,
fatto nascere, curato, osservato, annusato, toccato, camminato
(camminato tanto!) esplorato e guardato guardato guardato…
E intanto io mi riempivo di meraviglia, ogni stagione un poco
di più. Finché ho cominciato a sentire che mi
stava succedendo qualcosa …
Contemporaneamente il teatro continuava a scorrere,
parallelo, pieno di cose bellissime, ma sempre separato da quel
che avveniva “là fuori”, sulla collina …E
poi il momento felice, la mia grande fortuna, in cui due passioni
e due mondi, teatro e “giardino”, si sono toccati,
e c’è stata come una piccola esplosione, ed è
nato qualcosa di nuovo. Queste cose, si sa, si preparano per
anni senza che ce ne rendiamo conto e poi avvengono all’improvviso
e per caso, quel caso che non esiste.
L’occasione: il mio socio Maurizio mi
chiede di preparare una piccola raccolta di storie sull’uso
antico delle erbe “ visto che ti piacciono tanto le piante
…”; presto la cosa mi cresce fra le mani e, presuntuosamente,
diventa un’ idea di “ storia del dialogo fra gli
uomini e le piante”. Ed ecco che irrompe il ricordo del
“giorno della ruspa” e, quasi comicamente nell’enorme
differenza di scala, due immagini si affiancano: la nostra specie
che agli albori emerge dalla foresta ed entra nella radura (lo
“spazio della civiltà” secondo Vico) e da
lì comincia a “farsi largo nella selva” coltivando
e poi costruendo, dando inizio alla Storia… e noi cittadini
che senza nulla sapere ci facciamo largo nel gerbido del Monferrato
e diamo inizio ad una nuova storia fatta da un piccolo gruppo
di umani e da un luogo e da tanti altri esseri, insieme…
E lì mi si apre davanti un sentiero.
Comincio a lavorare su quel “qualcosa di simile”,
quella risonanza misteriosa fra un micro e un macro vertiginosamente
distanti: quello che avveniva intimamente fra me e quel piccolo
pezzo di terra e quello che doveva essere successo fra la nostra
specie e la natura all’inizio del cammino, nella foresta
delle origini.
L’incontro con gli esseri, per esempio, prima di tutto
vegetali, tutti “animati”; l’accorgersi di
percepire e di essere percepiti; la scoperta del tempo e della
sua durata, della differenza fra costruire e crescere; l’imparare
i nomi e realizzare che sapere i nomi vuol dire vedere; il provare
ad influenzare gli eventi sperimentando la magia del fare…
Sentirsi pervasi, soprattutto… Ecco: assolutamente imprevedibile,
manifestarsi quell’indefinito senso di “sacro”,
un sacro che è fuori da ogni religione…
Da quella prima “risonanza” è
nato “Sette volte bosco, sette volte prato”.
Lì per me si è segnata una via che non si è
più interrotta. È cominciato un
viaggio che si è creato la strada da sé passo
dopo passo, ogni passo prima intuito nella mia propria diretta
e ingenua pratica della natura e poi riconosciuto e fatto emergere
nel confronto con le scritture e le opere di mille scrittori,
poeti e anche, sempre più spesso man mano procedevo,
o filosofi e scienziati… è stata una grande avventura
e un puro divertimento imbattermi in una miriade di connessioni
stupefacenti mentre tracciavo i miei piccoli sentieri in quella
“foresta”…
E il cammino si è prolungato nel tempo,
ogni tappa uno spettacolo, secondo una progressione che ora,
guardando all’indietro, mi appare semplicemente logica
e necessaria: la foresta e la radura, il giardino, il paesaggio,
il pianeta…
Una progressione che un poco alla volta irresistibilmente
mi ha portato fuori, fuori dai teatri, dai loro muri fisici
e non fisici. Sono andata, leggerissima, dentro il teatro…
quello, in un certo senso, “primario”: un cerchio
di persone su un prato, sotto un grande albero, al tramonto;
una persona che entra nel cerchio e agisce, occhi negli occhi
con tutti gli altri, nello stesso spazio, materiale e infinito,
di tutti gli altri, dell’albero, del sole che cala. Sempre
cercando di tenere a mente il grande monito che cento volte
ho sentito dire da Judith Malina: non entrare nel cerchio se
non hai niente da dire!… o anche da domandare, dico io.
La seconda tappa è stata “Variazioni
sul giardino” Viaggio alla scoperta di un pezzo di Terra
perché avevo scoperto che ogni giardino rappresenta il
paradiso, che in ogni epoca gli uomini hanno “messo in
scena” nei giardini la loro lotta e la loro unione con
la natura… e volevo raccontarlo lievemente, giocando a
ricreare il mio giardino su un piccolo mucchio di terra sotto
gli occhi di chi mi era intorno… ricordando le mille scoperte
fatte dal “giorno della ruspa” in poi… che
un giardino è sempre un viaggio, per esempio; che “a
volte, la sera, scendendo in giardino, mi trovo di fronte un
momento/posto” e ci sprofondo dentro; che guardando un
albero posso vederlo crescere, che le mani cambiano toccando
la terra, che si può stare in convivio, che facendo pipì
sulla terra si hanno sempre quattro anni…
E poi avanti, lo sguardo si apre ancora di più,
ed “esplode il paesaggio” in uno spettacolo/viaggio
in Italia che è Paesaggi. Una passeggiata fra il
visibile e l’invisibile. Uno spettacolo che parla
della nostra “terrestrità”, che in ogni luogo
cambia, in cui si cammina a lungo tutti insieme e si sperimenta
che il paesaggio si sente con tutto il corpo, che si respira
con gli occhi, che “guardando bene, guardando a lungo…
possiamo vedere il tempo” o meglio possiamo sfogliarne
gli strati… il tempo geologico del pianeta, quello della
natura, quello degli uomini… e possiamo osservare come
siano compresenti, come si influenzino l’uno con l’altro,
come compongano assieme la grande opera che vediamo attuarsi
e mutare costantemente in quel “teatro del paesaggio”
in cui siamo attori e spettatori assieme… E poi si scopre
come nascono i nomi dei luoghi e il loro grande potere, ma anche
come i nomi possono velarci lo sguardo e impedirci di ascoltare
una lingua segreta che sta nella natura e che non separa gli
esseri uno dall’altro… e alla fine si gioca tutti
insieme a ribaltare i piani, a diventare paesaggio…
Dopo questa prima “trilogia” non
riesco a fermarmi, la “mia via” prosegue, altri
passi ed altri spettacoli, anche se ormai ho capito che sto
facendo uno spettacolo solo, che non termina mai.
Arriva “Il giardino segreto”
dalla splendida storia di Frances Brunnet riscritto per il teatro
assieme a Pia Pera, scrittrice e giardiniera, perché
tutte e due sappiamo che è proprio vero: curando un giardino
curiamo noi stesse ed è così bello raccontarlo
con una favola.
Arriva “Prima lezione di giardinaggio per giardinieri
anonimi rivoluzionari” perché un po’
di militanza ci vuole, vivaddio, ed è bello avere uno
spettacolo che si fa con vasi e semi e sta nel bagagliaio di
una macchina, che si può portare ovunque e costa così
poco che qualche volta si può anche regalare… E
poi ci sono storie che devono continuare ad essere raccontate,
che sono quasi dei miti moderni come quelle dell’“Arboreto
salvatico” di Mario Rigoni Stern o quella dell’
“Uomo che piantava gli alberi” e altre che ho trovato
io e che devono essere diffuse, come quella del Signor Nandino
di Antignano che è un contadino e che ha salvato il mais
“otto file” con il lavoro di una vita e ci mette
tre parole a farti capire quello che c’è da capire
sulle multinazionali dei semi e sulla guerra che c’è
in corso, o quella di una signora inglese che si chiama Joice
che mi ha introdotta alla magnifica pratica del “guerrilla
gardening”…
E non mi posso fermare ed ecco “Seconda
lezione di giardinaggio per giardinieri planetari”
perché alcuni pensieri che sempre più chiari mi
emergono dentro trovano conferma ed è proprio come dice…
Capek: “il vero giardiniere non è uno che coltiva
fiori, è uno che coltiva il suolo” o, come dice
Gilles Clément: “il giardino è il pianeta”…
e così, mentre penso “al fare, al non fare e al
disfare”, mi guardo intorno e trovo insospettabili maestri
giardinieri di cui voglio raccontare, “piccolissimi giardinieri
planetari, privi di potere, pieni di potenza”, come il
signor Gino, faccia da elfo, che ha ispirato il movimento “Stop
al consumo di territorio”, o quella coppia che ho conosciuto
nell’hinterland di Milano che ha ereditato dieci preziosi
garage e, per fare un regalo ai figli, li ha abbattuti, ha ritirato
fuori la terra e ci ha piantato un giardino.
E poi ancora arriva “Sillabario della
natura” diversissimo, perché più divento
grande più mi meraviglio per certe scoperte che a volte
emergono da sole quando sto “in natura” e dentro
di me si fa silenzio…Per esempio che “la danza degli
alberi rivela l’invisibile”, o che posso guardare
con occhi nuovi le erbacce che colonizzavano le nostre città
e così scovare “mostri benevoli nascosti”
… o che “ammirando il muschio” mi è
chiarissimo, di colpo, ch non c’è confine…
la pietra e la vita… Ma qui devo smettere di scrivere:
certe cose non si possono “dire”, ci vuole proprio
il teatro…Evviva!!