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teatro e natura

La poetica del gerbido
Lorenza Zambon

La ruspa entra nel gerbido. Poi avanza, dritta. Un rumore di schianti, mentre una striscia di impenetrabile intrico vegetale viene spellato via. Poi si ferma, gira su se stessa e torna indietro. Un’altra striscia. E avanti così. Poi la ruspa si spegne, di nuovo silenzio. Adesso sul dorso della collina c’è un grande spazio vuoto, rettangolare. Non c’è terra più nuda dell’argilla del Monferrato, così chiara, appena giallina. In mezzo un’unica quercia, risparmiata. Ora da qui si vede fuori. Lontani i profili delle altre colline, le valli, i paesi, le torri.

Dopo vent’anni ricordo bene l’emozione di quel momento, forte ma aggrovigliata, un po’ orrore per la violenza così evidente, un po’ incantamento davanti a quel vuoto che era la “nostra” terra, stesa davanti al rudere, nostra casa futura. Nettissimo il presagio del giardino, necessario e doveroso. Quel che ancora non sapevo è che stavo assistendo al vero atto di fondazione: della casa degli alfieri, certo, casa del teatro, ma anche del “mio” teatro futuro.

C’è voluto molto tempo, naturalmente. Da lì in poi, negli anni, io, noi, incapaci cittadini, abbiamo fatto buchi nella terra e zappato, piantato, seminato, innaffiato, potato, sbagliato, ucciso, tagliato, disfatto, rifatto, fatto nascere, curato, osservato, annusato, toccato, camminato (camminato tanto!) esplorato e guardato guardato guardato… E intanto io mi riempivo di meraviglia, ogni stagione un poco di più. Finché ho cominciato a sentire che mi stava succedendo qualcosa …

Contemporaneamente il teatro continuava a scorrere, parallelo, pieno di cose bellissime, ma sempre separato da quel che avveniva “là fuori”, sulla collina …E poi il momento felice, la mia grande fortuna, in cui due passioni e due mondi, teatro e “giardino”, si sono toccati, e c’è stata come una piccola esplosione, ed è nato qualcosa di nuovo. Queste cose, si sa, si preparano per anni senza che ce ne rendiamo conto e poi avvengono all’improvviso e per caso, quel caso che non esiste.

L’occasione: il mio socio Maurizio mi chiede di preparare una piccola raccolta di storie sull’uso antico delle erbe “ visto che ti piacciono tanto le piante …”; presto la cosa mi cresce fra le mani e, presuntuosamente, diventa un’ idea di “ storia del dialogo fra gli uomini e le piante”. Ed ecco che irrompe il ricordo del “giorno della ruspa” e, quasi comicamente nell’enorme differenza di scala, due immagini si affiancano: la nostra specie che agli albori emerge dalla foresta ed entra nella radura (lo “spazio della civiltà” secondo Vico) e da lì comincia a “farsi largo nella selva” coltivando e poi costruendo, dando inizio alla Storia… e noi cittadini che senza nulla sapere ci facciamo largo nel gerbido del Monferrato e diamo inizio ad una nuova storia fatta da un piccolo gruppo di umani e da un luogo e da tanti altri esseri, insieme…

E lì mi si apre davanti un sentiero. Comincio a lavorare su quel “qualcosa di simile”, quella risonanza misteriosa fra un micro e un macro vertiginosamente distanti: quello che avveniva intimamente fra me e quel piccolo pezzo di terra e quello che doveva essere successo fra la nostra specie e la natura all’inizio del cammino, nella foresta delle origini.
L’incontro con gli esseri, per esempio, prima di tutto vegetali, tutti “animati”; l’accorgersi di percepire e di essere percepiti; la scoperta del tempo e della sua durata, della differenza fra costruire e crescere; l’imparare i nomi e realizzare che sapere i nomi vuol dire vedere; il provare ad influenzare gli eventi sperimentando la magia del fare… Sentirsi pervasi, soprattutto… Ecco: assolutamente imprevedibile, manifestarsi quell’indefinito senso di “sacro”, un sacro che è fuori da ogni religione…

Da quella prima “risonanza” è nato “Sette volte bosco, sette volte prato”. Lì per me si è segnata una via che non si è più interrotta. È cominciato un
viaggio che si è creato la strada da sé passo dopo passo, ogni passo prima intuito nella mia propria diretta e ingenua pratica della natura e poi riconosciuto e fatto emergere nel confronto con le scritture e le opere di mille scrittori, poeti e anche, sempre più spesso man mano procedevo, o filosofi e scienziati… è stata una grande avventura e un puro divertimento imbattermi in una miriade di connessioni stupefacenti mentre tracciavo i miei piccoli sentieri in quella “foresta”…

E il cammino si è prolungato nel tempo, ogni tappa uno spettacolo, secondo una progressione che ora, guardando all’indietro, mi appare semplicemente logica e necessaria: la foresta e la radura, il giardino, il paesaggio, il pianeta…

Una progressione che un poco alla volta irresistibilmente mi ha portato fuori, fuori dai teatri, dai loro muri fisici e non fisici. Sono andata, leggerissima, dentro il teatro… quello, in un certo senso, “primario”: un cerchio di persone su un prato, sotto un grande albero, al tramonto; una persona che entra nel cerchio e agisce, occhi negli occhi con tutti gli altri, nello stesso spazio, materiale e infinito, di tutti gli altri, dell’albero, del sole che cala. Sempre cercando di tenere a mente il grande monito che cento volte ho sentito dire da Judith Malina: non entrare nel cerchio se non hai niente da dire!… o anche da domandare, dico io.

La seconda tappa è stata “Variazioni sul giardino” Viaggio alla scoperta di un pezzo di Terra perché avevo scoperto che ogni giardino rappresenta il paradiso, che in ogni epoca gli uomini hanno “messo in scena” nei giardini la loro lotta e la loro unione con la natura… e volevo raccontarlo lievemente, giocando a ricreare il mio giardino su un piccolo mucchio di terra sotto gli occhi di chi mi era intorno… ricordando le mille scoperte fatte dal “giorno della ruspa” in poi… che un giardino è sempre un viaggio, per esempio; che “a volte, la sera, scendendo in giardino, mi trovo di fronte un momento/posto” e ci sprofondo dentro; che guardando un albero posso vederlo crescere, che le mani cambiano toccando la terra, che si può stare in convivio, che facendo pipì sulla terra si hanno sempre quattro anni…

E poi avanti, lo sguardo si apre ancora di più, ed “esplode il paesaggio” in uno spettacolo/viaggio in Italia che è Paesaggi. Una passeggiata fra il visibile e l’invisibile. Uno spettacolo che parla della nostra “terrestrità”, che in ogni luogo cambia, in cui si cammina a lungo tutti insieme e si sperimenta che il paesaggio si sente con tutto il corpo, che si respira con gli occhi, che “guardando bene, guardando a lungo… possiamo vedere il tempo” o meglio possiamo sfogliarne gli strati… il tempo geologico del pianeta, quello della natura, quello degli uomini… e possiamo osservare come siano compresenti, come si influenzino l’uno con l’altro, come compongano assieme la grande opera che vediamo attuarsi e mutare costantemente in quel “teatro del paesaggio” in cui siamo attori e spettatori assieme… E poi si scopre come nascono i nomi dei luoghi e il loro grande potere, ma anche come i nomi possono velarci lo sguardo e impedirci di ascoltare una lingua segreta che sta nella natura e che non separa gli esseri uno dall’altro… e alla fine si gioca tutti insieme a ribaltare i piani, a diventare paesaggio…

Dopo questa prima “trilogia” non riesco a fermarmi, la “mia via” prosegue, altri passi ed altri spettacoli, anche se ormai ho capito che sto facendo uno spettacolo solo, che non termina mai.

Arriva “Il giardino segreto” dalla splendida storia di Frances Brunnet riscritto per il teatro assieme a Pia Pera, scrittrice e giardiniera, perché tutte e due sappiamo che è proprio vero: curando un giardino curiamo noi stesse ed è così bello raccontarlo con una favola.
Arriva “Prima lezione di giardinaggio per giardinieri anonimi rivoluzionari” perché un po’ di militanza ci vuole, vivaddio, ed è bello avere uno spettacolo che si fa con vasi e semi e sta nel bagagliaio di una macchina, che si può portare ovunque e costa così poco che qualche volta si può anche regalare… E poi ci sono storie che devono continuare ad essere raccontate, che sono quasi dei miti moderni come quelle dell’“Arboreto salvatico” di Mario Rigoni Stern o quella dell’ “Uomo che piantava gli alberi” e altre che ho trovato io e che devono essere diffuse, come quella del Signor Nandino di Antignano che è un contadino e che ha salvato il mais “otto file” con il lavoro di una vita e ci mette tre parole a farti capire quello che c’è da capire sulle multinazionali dei semi e sulla guerra che c’è in corso, o quella di una signora inglese che si chiama Joice che mi ha introdotta alla magnifica pratica del “guerrilla gardening”…

E non mi posso fermare ed ecco “Seconda lezione di giardinaggio per giardinieri planetari” perché alcuni pensieri che sempre più chiari mi emergono dentro trovano conferma ed è proprio come dice… Capek: “il vero giardiniere non è uno che coltiva fiori, è uno che coltiva il suolo” o, come dice Gilles Clément: “il giardino è il pianeta”… e così, mentre penso “al fare, al non fare e al disfare”, mi guardo intorno e trovo insospettabili maestri giardinieri di cui voglio raccontare, “piccolissimi giardinieri planetari, privi di potere, pieni di potenza”, come il signor Gino, faccia da elfo, che ha ispirato il movimento “Stop al consumo di territorio”, o quella coppia che ho conosciuto nell’hinterland di Milano che ha ereditato dieci preziosi garage e, per fare un regalo ai figli, li ha abbattuti, ha ritirato fuori la terra e ci ha piantato un giardino.

E poi ancora arriva “Sillabario della natura” diversissimo, perché più divento grande più mi meraviglio per certe scoperte che a volte emergono da sole quando sto “in natura” e dentro di me si fa silenzio…Per esempio che “la danza degli alberi rivela l’invisibile”, o che posso guardare con occhi nuovi le erbacce che colonizzavano le nostre città e così scovare “mostri benevoli nascosti” … o che “ammirando il muschio” mi è chiarissimo, di colpo, ch non c’è confine… la pietra e la vita… Ma qui devo smettere di scrivere: certe cose non si possono “dire”, ci vuole proprio il teatro…Evviva!!


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